Fermare il crollo del futuro è possibile

Autore: - Sezione: Attualità
Fermare il crollo del futuro è possibile

Dopo il “cin cin” di Capodanno, ecco cosa si prospetta all’orizzonte: inflazione praticamente assente, sviluppo del far east in forte rallentamento, guerra in Medio Oriente, valore del petrolio al ribasso, con ulteriore deflazione del sistema dei prezzi e conseguente stagnazione economica (la riduzione globale del costo di un input produttivo comporta di sfruttarlo come vantaggio competitivo, con ulteriore riduzione del sistema dei prezzi); PIL in crescita solo per gli USA per effetto di un neoliberismo che stampa cartamoneta e genera bolle finanziarie, austerity in Europa, tassi di interesse volatili, rendimenti incerti e credito bloccato, nonostante le politiche monetarie espansive. Il risultato di tutto questo mélange: la negatività fra i maggiori indici di borsa all’apertura dei mercati di Gennaio 2016 con un concetto di industria sempre più posto alla gogna.

La domanda sorge spontanea: è possibile fermare il crollo del futuro? Ovviamente si signori e signore e per farlo proprio l’Europa potrebbe ritrovare nel medio-lungo periodo una posizione di prestigio internazionale, ormai fortemente messa in discussione visti la precarietà dell’unione economica, il tema di emergenza dell’immigrazione, che mostra falle nel sistema decisionale e la costante minaccia del rischio di default che assale Portogallo, Grecia, Spagna e Italia, soggiogati dall’ordoliberalismo tedesco padron padrone nell’unione monetaria. Cominciando proprio da quest’ultimo, è bene urlare a gran voce che sia un modello di crescita economica comune da abbandonare o quanto meno allentare o sospendere al più presto in quanto impossibile da estendere sull’intera unione monetaria europea. Questa è la prima necessità per tornare a parlare di futuro.

L’ordoliberalismo, seppur fondandosi su nobili principi, dal momento che prende forma dalle teorie di Hobbes, richiamate da Hayek, si ispira alla traduzione dell’interesse individuale in collettivo grazie al principio di coesistenza armonica di infiniti ambiti sociali (il Kosmos), ovverosia sinergie sussidiarie esistenti fra vere e proprie sfere, da difendere e alimentare in modo non invasivo: arte e cultura, diritto, industria, politica, sanità, economia (etc), definenti insieme il concetto di buon pluralismo. Economicamente nasce in antagonismo al liberismo classico a la Adam Smith. Affinché questa teoria si verifichi, occorrono condizioni al contorno ben precise, serve che il potere sia frammentato in cellule, è necessario per l’appunto un governo di stampo federale che eserciti il potere di concerto con istituzioni precise, garanti della democrazia. Nel concreto tutto questo si traduce per lo Stato in un ruolo di controllo di questo positivo esistere, cioè in un monitoraggio ordinativo per le sfere prettamente non economiche, a garanzia del fruttifero rapporto fra le classi sociali e regolativo per quanto concerne l’ambito economico, con il preciso scopo di limitare il regime inflattivo e l’immissione smodata di base monetaria (ruolo completamente diverso anche da quello professato da Keynes). Alla sua base si trovano organicismo, sussidiarietà e personalismo di matrice cattolica.

E’ un modello teorico nobile ed unico nel suo genere, di stampo aristotelico, affermante moderazione ed equilibrio come condizioni possibili per lo sviluppo economico sociale, inquadrante la società come un organismo da curare contenendo gli eccessi. Questa teoria di derivazione austriaca, dalla sua comparsa nel 1938 in un convegno sull’economia a Parigi, una volta terminato il nazismo in Germania, ha rappresentato la chiave di ripresa del suo sviluppo socio-economico e, assicurata la corretta gestione del debito pubblico, ha fatto del Paese un vero esempio di produttività, all’insegna di occupazione e solida crescita, rendendo finanche possibile la convivenza dei sindacati nei consigli direttivi delle grandi aziende di bandiera. La robustezza del sistema ha finito per dare alla luce una potenza senza equali nel vecchio continente, contribuendo a generare un mercantilismo orientato all’esportazione, con cospicuo arricchimento delle casse di Berlino a svantaggio delle economie importatrici per via dello squilibrio nelle bilance dei pagamenti. L’ordoliberalismo finì per diventare una vera e propria strategia di dominanza e supremazia. Rafforzato il marco al punto da renderlo poi il paria dell’euro, una introdotta la moneta unica, i tedeschi, a ragion veduta della loro leadership economica, hanno fatto sì che gli altri Stati aderenti all’Unione Monetaria Europea sottoscrivessero il patto di stabilità economica, cioè il principio di contenimento del rapporto deficit PIL al di sotto della soglia del 3%, in modo tale da non danneggiare i piani di crescita espansionistica germanici impoverenti vicini e lontani, all’insegna dell’adagio “quod ego sum leo”.

Ed ecco il caso dell’Italia, che come gli altri Stati, in modo più o meno noto ai più, per volontà di Mario Monti, ha finito per asservirsi al modello, introducendo e sottoscrivendo all’interno della Costituzione il comma 4 dell’articolo 81, in cui si fa chiara menzione della volontà di mantenere costante l’equilibrio contabile nelle casse dello stato, che altro non vuol dire che imporre il pareggio di bilancio, quella stessa forma di controllo regolativo, raccontata proprio dall’ordoliberalismo. Austerità, zero sprechi per la crescita sana, arrivando a produrre perseguendo efficienza ed efficacia, senza insomma alimentare spesa pubblica infruttuosa.

Ma come uscire dalla stagnazione economica se l’ordoliberalismo per la stessa florida Germania è capace di prospettare una crescita del PIL che a stento supera l’1,4%? Cosa accade se anche gli altri paesi dell’area Euro continuassero a restarvi fedeli? A stento l’Italia raggiunge una crescita del PIL superiore allo 0,7%. Forse i neoliberisti Keynesiani d’oltre oceano avevano ragione nel ritenere questa teoria economica dannosa alla stessa crescita? Se i tedeschi agissero individualmente, forse potrebbero anche riprendere attivamente la loro corsa, ma per competere nella globalizzazione hanno bisogno di non essere soli. Il contesto vede il PIL USA, a prescindere dagli impulsi della finanza, tornare a salire molto di più di quello tedesco, il PIL della Cina nel 2016 aumenterà del 6/7% dando risultato alla volontà di affermarsi come mercato sempre più ampio, ma moderato per mezzo di dirigismo nei confronti della Borsa, alterazioni del debito tramite banche ombra e governo delle autorità monetarie. E’ chiaro, specie dopo il disastro della Grecia, che l’Europa dell’euro abbia bisogno di ossigeno. Cosa significa più ossigeno? Parlando di più aria da respirare, è ragionevole pensare nell’ottica sia del breve termine che del medio e lungo periodo, a livello nazionale e sovranazionale.

Nel breve-medio periodo, a livello nazionale, serve un ritorno alle politiche industriali “mission oriented”. E’ necessario riattivare una più lauta elargizione alla spesa pubblica in favore della ricerca e dello sviluppo, consolidare competenze in house, trasversalmente ai settori della sanità, dell’industria, dell’energia da fonti rinnovabil e della difesa; rafforzare le capacità tecnologiche del Paese, favorire insomma il progresso di bandiera. Per far questo dovrebbero essere istituiti fondi allo sviluppo accessibili per mezzo di bandi a partecipazione di aziende nazionali e multinazionali operanti sul territorio. Per andare oltre al semplicistico concetto dell’incentivazione dell’innovazione ripiegata nel business as usual, Confindustria e Confartigianato dovrebbero agevolare e accelerare il dialogo fra imprese e centri di ricerca universitari, governativi e fondazioni private. Parallelamente lo Stato, dovrebbe farsi propulsore di occupazione, dando il via ad opere pubbliche di infrastrutturazione nazionale; tutti sappiamo, ad esempio, che in Meridione ferrovia di stato, reti di raccolta, distribuzione e depurazione delle acque, strutture sanitarie, strade e autostrade sono piuttosto obsolete.

Non finisce chiaramente tutto qui, vivendo un mondo globalizzato, la chiamata alla local action non basa più, bisogna riprendere le redini della politica estera, cercare collaborazioni per la crescita industriale con Paesi stranieri, importare ed esportare conoscenza, raggiungere più competitività favorendo l’apertura di filiali strategiche laddove esistano asset, sempre in ottica win-win, per la crescita di un settore merceologico. Non sarebbe utopico concedere alle imprese italiane titoli del debito nazionale in parziale sostituzione dei debiti che la P.A. ha nei loro confronti, va bene ricevere liquidità dalla Banca Centrale Europea, ma siccome a comprare i titoli di Stato non è solo lei, ma anche altri Paesi, forse limitare la vendita del nostro debito a terzi soggetti potrebbe anche essere saggio in tempi di recessione.
A livello sociale, occorre consolidare scuole ed università, favorire integrazione e cooperazione fra le classi, animando ONLUS e associazionismo a scopo umanitario e culturale, porre le basi per un’educazione alla frugalità, alla parsimonia, alla sostenibilità ambientale, non certamente all’eccesso e al consumismo. Il Governo dovrebbe raggiungere maggiore agilità, come del resto sta cercando di essere, farsi garante del sistema previdenziale offrendo occupazione e lavoro, spronare istituzioni del credito a credere nei progetti industriali, dando peso a leve quali il project financing. Capite bene che per far questo, con un PIL che fatica “ad ingranare la prima”, è impensabile non allentare il famigerato vincolo di bilancio, ma si ricordi bene che il moltiplicatore della spesa pubblica è maggiore di uno e che nel medio-breve periodo i benefici in termini di ritorno sono ben percepibili, evasione fiscale permettendo. Questo si chiama agire per la ripresa e fermare il crollo del futuro.

Nel medio lungo periodo, è giusto guardare a livello sovranazionale all’Europa. L’Europa come ideale di unità fra i popoli vive ancora un certo plauso nei Paesi aderenti, ma è in forte dubbio che essa stia percorrendo la giusta direzione politico governativa, specie guardando all’Unione Monetaria.

Proprio per quest’ultima, senza una struttura decisionale integrata, in assenza di un’istituzione che la rappresenti con una visione ed un programma comune, la politica monetaria espansiva rischia di risultare inefficacie. Senza un denominatore comune fiscale, libera circolazione di merci, capitali e persone, che è sempre un grande successo, è difficile pensare che oggi, data la portata della crisi internazionale, possa permettere di fare la differenza sul piano globale. Occorre rinnovamento, limitarsi a fornire suggerimenti su come gestire la spesa pubblica nel rispetto dei vincoli sul deficit non basta più. Il risultato economico dell’Unione Monetaria, è la risultante dell’operato individuale dei Paesi, costretti ad agire con il cappio al collo del vincolo di bilancio. Occorre un disegno comune, occorre una politica industriale comune, occorre dunque rinunciare a buona parte della sovranità nazionale, in favore di una sovranazionale. Ma questo è desiderato? Seppur necessario, non è del tutto apprezzato, decisori politici progressisti ed in parte visionari sembrano non volersi palesare, il centro destra, maggioranza partitica in parlamento europeo, è contraddistinto da forti contrasti interni, un unico Parlamento, a rappresentanza di Unione in parte anche monetaria e non solo politica e sociale potrebbe non essere più sufficiente.
Secondo il principio di evidenza dell’output, l’Europa oggi non ha mezzi sufficienti per contrastare la crisi e questo causa frustrazioni, accentua le diversità, irrigidisce gli individualismi ed esalta i nazionalismi. Un Unione di stati diversi è possibile, ma solo riscoprendo il valore della cooperazione per lo sviluppo sostenibile, obiettivo difficile, percorso tortuoso ma non impossibile, se a volerlo congiuntamente fossero paesi del calibro della Francia, dell’Italia, della Spagna e del Portogallo. Prendiamo orsù in mano la matita, e ridisegnamo il futuro della nostra Europa in questa direzione!