Impressioni da Sarajevo
Non avrei mai pensato che un giorno il lavoro mi avrebbe portato a Sarajevo. E invece eccomi qui, nella Gerusalemme d’Europa. Eh sì, perchè qui il multiculturalismo è visibile ad ogni angolo. Il centro città è piuttosto circoscritto e nel giro di pochi metri sorgono moschee, chiese ortodosse, cattoliche e sinagoghe, creando un melting pot di persone che parlano la stessa lingua, ma hanno credenze differenti. E’ bello vederli convivere in pace. Già…in pace…Quella che solo vent’anni fa è stata rovinata dalla guerra civile che tutti ricordiamo. Vent’anni sembrano tanti, ma in realtà sono pochi per cancellare l’orrore che ha travolto questo Paese e soprattutto questa città.
Non voglio esprimere opinioni o considerazioni sul conflitto, non mi compete e credo di non avere la preparazione sufficiente, ma almeno posso cercare di trasmettervi le emozioni che ho provato raccontandovi le mie peregrinazioni per la città.
Appena arrivata, mi sono inoltrata nel centro storico ottomano, Bascarsija, quasi interamente restaurato, soprattutto nelle vie turistiche, costellate da negozietti di souvenirs come in ogni capitale europea. Fin qui niente di strano, se non il crogiolo di religioni diverse cui accennavo prima. Poi, però, continuando a camminare mi imbatto nella prima “rosa di Sarajevo”, un segno di granata, riempito di vernice rossa a testimoniare il sangue versato durante la guerra civile. Ed è proprio in questo momento che realizzo pienamente che gli abitanti continuano la loro vita, ma in fondo al cuore non vogliono e non possono dimenticare.
Vado avanti a camminare fino al mercato Markale. Mi dirigo lì semplicemente perchè, come sempre, sono attratta dai luoghi dove scorre la vita quotidiana degli abitanti del luogo e cerco, per quanto possibile, di mescolarmi alla gente locale. Non faccio in tempo a percorrere neanche il primo corridoio fra i banchi che arrivo davanti ad una teca a protezione di un altro segno di granata, più grande del precedente e lasciato intatto. Resto ferma immobile per alcuni minuti e a quel punto non riesco più a non pensare a quello che è stato. Immagino la paura, mi tornano alla mente le fotografie che avevo visto prima di partire e scavo nella memoria a quando, tredicenne, ascoltavo le notizie al telegiornale durante il conflitto. Gli occhi si fanno lucidi, ma proseguo le mie visite. Qualcosa è cambiato però. Lo sguardo è più attento e so che ogni buco sui marciapiedi non è casuale o dovuto all’incuria, ma è testimonianza della crudeltà umana.
Cammino e non guardo più solo davanti a me, ma alzo gli occhi e noto che la maggior parte dei palazzi sono trivellati di colpi. Entro in un negozio e la titolare inizia a chiacchierare con me e finisce col parlarmi della guerra, senza che io le avessi chiesto nulla.
Ora non mi resta che andare a visitare il Museo di Storia dove buona parte dell’esposizione è dedicata al recente conflitto. Le fotografie non lasciano spazio all’immaginazione. Posso solo osservare in silenzio e riflettere.
Penso che i miei coetanei, incontrati per le strade di Sarajevo e che, la sera, ho visto divertirsi al ritmo di musica balcanica nei tantissimi locali della città, sono ragazzi a cui l’infanzia è stata negata, che non potevano giocare all’aperto, che hanno visto morire tante persone, e che sono quei bambini che ho visto fotografati al museo con gli occhi colmi di rassegnazione e tristezza. Sono sopravvissuti, però. Ce l’hanno fatta. E ora pensano a costruire il loro futuro e quello dei loro figli in una città dove il canto del muezzin e il suono delle campane s’intonano alla perfezione.